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Ricordi newyorkesi


Ci sono due date nella mia vita di atleta, fra le più importanti, pur non essendo legate ai risultati del ring. La prima, il diciassette aprile del ’67 che segnò l’ultimo incontro di campionato del mondo disputato dentro le vecchie mura del M.S.G. di N.Y.. Da lì a poco sarebbe stato abbattuto.
Noi in Italia ne avremmo fatto un monumento nazionale.
Aveva ospitato le gare più importanti dello sport mondiale. Il pugilato, il basket, hockey, i grandi circhi e gli spettacoli con i nomi dei più famosi attori e cantanti che esistevano al mondo.
Ripassai dopo un anno, sulla 8^ Av. e trovai, al posto di quello che per me era stato un tempo, un grande piazzale ben rasato di cemento che faceva da parcheggio a pagamento per centinaia di automobili.
Sentii una stretta al cuore e una parte di me la immaginai sotto le macerie di quando lo avevano abbattuto. Però mi sento testamentario di un fatto importante: essere stato l’ultimo campione del mondo del vecchio M.S.G. – la storia non finisce qui.

Sarei stato io, ad inaugurare questa volta il nuovo M.S.G.

Il 4 marzo dell’anno seguente, il 1968 eccomi ancora a N.Y. per il terzo ed ultimo incontro con Griffith. Queste mie note le scrissi allora, con le impressioni ancora calde.
Era nato il nuovo M.S.G. sulla 33^ St. all’incrocio con la 7^ Av, il quarto in ordine di costruzione.
L’onore di inaugurarlo a Griffith per la bella con me.
Nel sottoclou nientemeno che Loè Frosier contro il gigantesco Buster Matthis.
Era presente il pubblico dei grandi avvenimenti – quella sera c’ero anch’io! Valeva quanto e più dell’avvenimento stesso. Quando arrivai, rimasi colpito come di quanta folla sostasse al di fuori della maestosa arena, senza speranze di entrare. I book-maker davano Griffith vincitore 5 a 1 ed i biglietti erano esauriti. Era il quattro marzo del ’68 e sarebbe stata una data storica per me, per lo sport per la città di New York.

Mi trovavo nel mio camerino esattamente da due ore. I rituali vanno fatti senza fretta. Le operazione da compiere sono molte e richiedono estrema attenzione. Non va tralasciato nulla, ma niente più del necessario deve essere fatto.
La concentrazione per l’avvenimento non mi impedì di osservare attorno a me qualche sostanziale differenza, con il vecchio Madison S.G. i colori non erano più gli stessi.
La luce era diffusa in modo totale ed uniforme, e non esistevano angoli bui. Eppure non si vedevano lampadari né lampadine, come su un set cinematografico. Era impossibile nascondere, custodire piccoli segreti. Tutti, potevano vedere tutto.
Non era così il camerino del vecchio Madison con le mura impregnate di storia che parlavano di campioni famosi, di sofferenze, di segreti custoditi e mai svelati, di paure non sempre nascoste, felicità sognate rimaste sogno, di vittorie scontate e mai realizzate tutto protetto dalla cornice di penombra.
Ora, la luce fugava le ombre e scopriva la verità. Gli uomini che mi circondavano non avevano più le sembianze antiche, come se non fossero gli stessi protagonisti di una storia irripetibile. La luce li svelava. Non volevo distrarmi, uscire nemmeno per un attimo dal mio ruolo di sfidante. Era giunto il momento decisivo, magico della mia carriera. Un centinaio di passi per portare intatta la mia volontà di vittoria sul ring, il mio coraggio, la concentrazione raggiunta in giorni di feroce applicazione, scartare l’inutile permeando il necessario.
Niente cose futili, preoccupazioni, pensieri paure, titubanze, dubbi.
Tutto era passato attraverso la mia mente senza attecchire.
Avevo vinto io la battaglia con me stesso. Dopo questa vittoria avrei anche potuto morire, felice di aver compiuto un opera perfetta ed assolutamente irripetibile.
Non dovevo divagare, il mio pensiero doveva rimanere rivolto a Griffith.
Non dovevo interromper il contatto fino al primo suono del gong.

Un attimo solo di distrazione, dovuto alla celebrazione di un ricordo struggente.
“ Ciao Mamma “ il tuo sorriso giovane, come quando era volata in cielo, mi rassicurò: mi avrebbe ancora dato protezione, ma la vittoria dipendeva solo da me.
Ero già entrato nel parterre; mi trovavo ormai in mezzo alla folla che mi accoglieva fra urla festanti. Mi accorsi che anche qui qualcosa era cambiato rispetto al vecchio Madison. Mi avvolse e mi accompagnò un enorme fascio di luce che modificava il percorso al ring. Mi abbracciava senza accecarmi.

Un attimo per abituarmi – vedevo i volti e le mani protese di quelli che mi erano vicini, ma gli altri, più distanti, venivano tagliati dal chiaro-scuro. Anonimi, anche se conosciuti. Ecco che la luce entrava di prepotenza in un ruolo nuovo deciso, importante. Invece era semplice coreografia!
Io ero il protagonista, ma era la luce che esaltava la mia parte con la sua intensità. Avrebbe potuto solo con un leggero spostamento del faro, mettermi al buio, raffreddare tutto.
In un attimo, anche solo per un attimo, non sarei stato nessuno. Ecco davanti a me le scaletta per salire sul ring. Prima il piede sinistro, come sempre, un po’ di superstizione non guastava, era meglio non cambiare nulla. Il ring mi sembrava come, non lo avevo mai visto così grande. Era ancora l’effetto della luce o era davvero gigantesco?
Incominciai a muovermi al mio angolo e mi voltai all’urlo della folla, per vedermi di fronte, al centro del ring, Griffith il Campione che mi aveva detronizzato qualche mese prima. Finalmente eravamo di nuovo faccia a faccia. Non ero per niente intimorito. Avevo fatto le cosa per bene, senza tralasciare nulla e dunque non c’era niente che potesse sorprendermi. Ma non fu così.
Non avevo previsto quel fascio di luce che coprì il ring in modo uniforme, uguale in ogni angolo e mi impediva di vedere il primo ordine di posti dove solitamente ero abituato, anche durante i match, a lanciare uno sguardo per capire, dalla faccia di quelli che tifavano per me, come andavano le cose dalle loro espressioni.

I volti che avevo di fronte sul ring, persino la voce dell’arbitro mi giungevano alterati, sentivo forte quella del pubblico, che però non vedevo.
Griffith, che avevo già incontrato due volte su ring diversi, mi appariva più grande, mi sembrava più robusto, con muscoli enormi,smisurati. Capii ancora che era stata lei, la Luce. Mi consolai pensando che anche lui doveva provare la stessa impressione, guardandomi. Volevo vedere il pubblico, ma proprio non mi riusciva. Potevo solo sentirlo. Percepii che gli apparivo, assieme a Griffith, più chiaro, più godibile spettacolarmente.
Ormai ero geloso. Lei la Luce, continuava ad inserirsi nel mio ruolo e farla da protagonista. Io solo volevo vincere e non dividere niente con alcuno. Entrambi volevamo quella vittoria. Non ci sarebbero state altre occasioni per il perdente. Griffth era dato favorito dalle scommesse e proprio per questo io mi sentivo avvantaggiato. L’ultima volta era stato lui a vincere. Sentivo che ora ce l’avrei fatta. Non erano stati in molti a credere nella mia vittoria; la stampa italiana era la meno convinta del mio successo. Ero preparato a tutto e niente mi avrebbe sorpreso. Mi sentivo nelle condizioni del primo incontro, con in più la consapevolezza di averlo già battuto una volta.il pubblico lo sentivo soltanto, era numeroso e questo mi bastava. Assieme a Golinelli, all’angolo c’era anche Al Silvani, personaggio molto conosciuto nel mondo della boxe americana per aver preparato molti campioni del molto prima di me. Mi era stato vicino a Grossinger. Certo però non c’era stato molto spazio per l’inserimento a nuove dottrine tecniche e per tattiche innovatrici. Il mio modo di fare la boxe era quello, conosciuto, definito. Un pugilato assolutamente personale, che era impossibile modificare… Si profilava la possibilità dei realizzare grandi guadagni economici, forse una vera ricchezza e questo mi faceva paura. Non ho mai avuto un buon rapporto con il denaro. Il solo pensare di possederlo mi assopiva, mi dava torpore.

Ero nato con una sola vocazione, quella di fare la boxe. Dentro ero sempre un pugile dilettante. La vittoria mi esaltava e la dura vita d palestra, non era per me un sacrificio.
Avevo di fronte a me Griffith, il campione del mondo dei pesi medi e dovevo riuscire ad esprimere questa boxe sul ring. Dal primo suono del gong, dovevo dimostrare che ero lì per riprendere il titolo.
Per questo, al via, ci fu quasi uno scontro al centro del ring. Anche Griffith voleva quella vittoria ed avrebbe fatto il possibile per ottenerla. Le mie braccia erano sciolte e sentivo che l’aria mi entrava fresca nei polmoni. Anche l’impianto di areazione del Nuovo Garden dava la sensazione di respirare aria di montagna. Il ritmo era dei più sostenuti. Azione mia e subito azione sua. I valori sul ring si equivalevano. Le quindici riprese, però, erano molto lunghe e qualcosa doveva succedere. Fu proprio così. Su in attacco di Griffith, risposi con tempestiva prontezza, con precisione ed efficacia partì uno stupendo sinistro che arrivò al mento di Emile che andò al tappeto. Era l’undicesima ripresa e questo significava essere ad un passo dalla vittoria. L’incontro fino al round precedente era stato su un piano di parità. Fu quel colpo a fare la differenza. Finì l’incontro e le urla presero forma. La luce sul ring aveva spento il suo cono luminoso e si erano accese le luci diffuse, sempre invisibili, che portavano agli occhi tutta la vita del Madison.
Ad altissima voce fu scandito il punteggio dei giudici ed il verdetto di vittoria che mi restituiva il titolo di campione. Lo aspettavo, eppure qualcosa era cambiato.
Era diverso dalla sera di un anno prima. Allora la vittoria mi procurò una sensazione elettrizzante una gioia incredibile un sentimento sconvolgente che non puoi provare due volte., ora, ero soltanto molto felice.
Ora il titolo era veramente mio, nostro dell’Italia. I giornali riscrissero ancora delle cose esaltanti, nessuno aveva più dubbi. Potevo gestire quella conquista senza domandare permesso a nessuno.
Potevo avere tutto. Desiderare, chiedere e possedere.

Ero stato ancora un M.S.G. a darmi la corona prestigiosa dei pesi medi. Ad un pugile bianco e non Americano e contro ogni pronostico. La prossima volta, arrivando a N.Y. come al solito passerà per un saluto a quello che era diventato il mio nuovo tempio e forse ancora una volta mi troverò, con amarezza di fronte un grande parcheggio per automobili in attesa di costruire qualcosa che meraviglierà il mondo.






Il match con Luis Rodriguez


Qualcuno disse che era stato il più bel gancio sinistro che avessi portato nella mia carriera. Se non è stato quello di miglior fattura, certamente il più importante. Venne proprio in un momento in cui le cose non andavano per il meglio. Era l’undicesima ripresa, delle quindici, ed in palio il titolo mondiale dei medi. Rodriguez continuava ad attaccarmi con una tecnica che non avevo mai incontrato prima.

Mi stava di fronte in modo orizzontale, il che poteva favorirmi nei colpi diretti, continuava però a dondolarsi a destra e sinistra come un metronomo. Il bersaglio non era mai fermo. Tanti colpi a vuoto e le immancabili testate che mi devastavano il volto.

Quella notte mi cucirono 24 punti di sutura tra naso e sopracciglio. Un record per me! Le quattro riprese che mancavano mi sembravano lunghe un’eternità. Dentro di me però la certezza di arrivare in fondo con la vittoria. Certo che il mio temperamento andava oltre l’evidenza dei fatti. Nessuno, di buon senso, avrebbe scommesso nella mia vittoria. Nessuno però mi conosceva dentro!
Era da un paio di round che osservavo un suo movimento, che non aveva fatto prima. Dopo aver ortato il destro, rientrava abbassandolo troppo, lasciando sguarnita la parte destra del volto. Ci provai un paio di volte a portare il mio “crocet” senza quella certezza necessaria a colpire il bersaglio che si era rallentato e, il colpo non ebbe effetto.
Al prossimo destro mi dissi “ dovrò rischiare di più”. Mi presentai sguarnito, con il mio sinistro abbassato, il bersaglio da colpire gli sembrò facile facile. La sua sicurezza mi diede il vantaggio. In una frazione di tempo infinitesimale, uno spostamento breve all’indietro, il suo destro cadde nel vuoto.. rientrai alla velocità di un fulmine e, partì con il gancio sinistro verso il bersaglio. Il mento che è il punto più vulnerabile del pugile, incassò un colpo, che ebbe l’effetto dovuto.

Due colpi in attacco raddoppiano la forza dello scontro e la potenza del pugno. Vidi Rodriguez andare all’indietro, dinocolata, le sue gambe sembravano diventate di gomma, s’afflosciavano su se stesse, il corpo senza sostegno si stese supino al centro del ring.
Le braccia allargate come in croce.
Un tentativo di rialzarsi. Sollevò soltanto la testa di qualche centimetro dal quadrato. Si capì che il conteggio era iniziale.

Avevo battuto un grande campione. Ero felice ma non soddisfatto.

Avevo corso un grosso rischio e questo mi toglieva serenità e sicurezza. Era ormai da quasi dieci anni sui ring da professionista e forse cominciavo ad essere stanco.







Memoria di Ring : l'ultimo match con C. Manson


E’ incredibile pensare a quanti fotogrammi di situazioni, fermi in altrettanti momenti della vita, possono scorrendo, imprimere per sempre nella memoria un pensiero incancellabile.
Oggi ricordo ancora ogni frazione di tempo vissuto in quel momento. Urlando per il dolore che mi provocava l’impossibilità d tornare indietro, per rimettermi in gara, ero nelle condizioni di continuare, lo sentivo per la mia esperienza, non ero ancora vinto, le mie energie erano ritratte, tutte ancora da giocare, per la posta in palio più importante della mia vita.

Vedevo Manson che saltava di gioia, era già questo il verdetto della mia sconfitta. Ricordo di aver urlato NO NO tantissime volte, mentre Amaduzzi mi tratteneva contro le corde del mio angolo del ring.
I giochi si erano conclusi. Io adoravo rispettosamente il Signor Amaduzzi, che pur essendo più grande di me di soli dieci anni, mi rivolgevo a lui con il lei ed il signor prima del nome. In quel momento, ma non per molto, l’ho odiato. Mi sentivo tradito, non compreso per ciò che io ero ancora in grado di fare per riprendermi il titolo mondiale di campione dei pesi medi. Il film che porto impresso nella mia mente rimarrà indelebile e, a ripensarci anche il dolore oggi, Amaduzzi che non c’è più, con la maturazione, propria del tempo, rimane dentro al mio cuore come la persona che ognuno vorrebbe avere a fianco, navigando per mari forti e difficili come quelli del ring da combattimento.

Grazie Signor Amaduzzi!
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